|   | 
Capitolo 29 
 
Ritorna a casa della  Fata, la quale gli promette che il giorno dopo non sarà più un burattino, ma  diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte per festeggiare questo  grande avvenimento.  
 
Mentre il pescatore era  proprio sul punto di buttar Pinocchio nella padella, entrò nella grotta un  grosso cane condotto là dall’odore acutissimo e ghiotto della frittura. 
— Passa via! — gli gridò il  pescatore minacciandolo e tenendo sempre in mano il burattino infarinato. 
Ma il povero cane aveva una  fame per quattro, e mugolando e dimenando la coda, pareva che dicesse:  « Dammi un boccon di frittura e ti lascio in pace ». 
— Passa via, ti dico! — gli  ripeté il pescatore; e allungò la gamba per tirargli una pedata. 
Allora il cane che, quando  aveva fame davvero, non era avvezzo a lasciarsi posar mosche sul naso, si  rivoltò ringhioso al pescatore, mostrandogli le sue terribili zanne. 
In quel mentre si udì nella  grotta una vocina fioca fioca, che disse: 
— Salvami, Alidoro!… Se non  mi salvi, son fritto! 
Il cane riconobbe subito la  voce di Pinocchio e si accorse con sua grandissima maraviglia che la vocina era  uscita da quel fagotto infarinato che il pescatore teneva in mano. 
Allora che cosa fa? Spicca  un gran lancio da terra, abbocca quel fagotto infarinato e tenendolo  leggermente coi denti, esce correndo dalla grotta, e via come un baleno! 
Il pescatore,  arrabbiatissimo di vedersi strappar di mano un pesce, che egli avrebbe mangiato  tanto volentieri, si provò a rincorrere il cane; ma fatti pochi passi, gli  venne un nodo di tosse e dové tornarsene indietro. 
Intanto Alidoro, ritrovata  che ebbe la viottola che conduceva al paese, si fermò e posò delicatamente in  terra l’amico Pinocchio. 
— Quanto ti debbo  ringraziare! — disse il burattino. 
— Non c’è bisogno, —  replicò il cane. — Tu salvasti me, e quel che è fatto, è reso. Si sa: in questo  mondo bisogna tutti aiutarsi l’uno coll’altro. 
—  Ma come mai sei capitato in quella grotta?           
— Ero sempre qui disteso  sulla spiaggia più morto che vivo, quando il vento mi ha portato da lontano un  odorino di frittura. Quell’odorino mi ha stuzzicato l’appetito, e io gli sono  andato dietro. Se arrivavo un minuto più tardi!… 
— Non me lo dire! — urlò  Pinocchio che tremava ancora dalla paura. — Non me lo dire! Se tu arrivavi un  minuto più tardi, a quest’ora io ero bell’e fritto, mangiato e digerito. Brrr!…  mi vengono i brividi soltanto a pensarvi!… 
Alidoro, ridendo, stese la  zampa destra verso il burattino, il quale gliela strinse forte forte in segno  di grande amicizia: e dopo si lasciarono. 
Il cane riprese la strada  di casa: e Pinocchio, rimasto solo, andò a una capanna lì poco distante, e  domandò a un vecchietto che stava sulla porta a scaldarsi al sole: 
— Dite, galantuomo, sapete  nulla di un povero ragazzo ferito nel capo e che si chiamava Eugenio?… 
— Il ragazzo è stato  portato da alcuni pescatori in questa capanna, e ora… 
— Ora sarà morto!… —  interruppe Pinocchio con gran dolore. 
— No: ora è vivo, ed è già  ritornato a casa sua. 
— Davvero, davvero? — gridò  il burattino, saltando dall’allegrezza. — Dunque la ferita non era grave? 
— Ma poteva riuscire  gravissima e anche mortale, — rispose il vecchietto, — perché gli tirarono sul  capo un grosso libro rilegato in cartone. 
— E chi glielo tirò? 
— Un suo compagno di  scuola: un certo Pinocchio… 
— E chi è questo Pinocchio?  — domandò il burattino facendo lo gnorri. 
— Dicono che sia un  ragazzaccio, un vagabondo, un vero rompicollo… 
— Calunnie! Tutte calunnie! 
— Lo conosci tu questo  Pinocchio? 
— Di vista! — rispose il  burattino. 
— E tu che concetto ne hai?  — gli chiese il vecchietto. 
— A me mi pare un gran buon  figliuolo, pieno di voglia di studiare, ubbidiente, affezionato al suo babbo e  alla sua famiglia… 
Mentre il burattino sfilava  a faccia fresca tutte queste bugie, si toccò il naso e si accorse che il naso  gli s’era allungato più d’un palmo. Allora tutto impaurito cominciò a gridare: 
— Non date retta,  galantuomo, a tutto il bene che ve ne ho detto: perché conosco benissimo  Pinocchio e posso assicurarvi anch’io che è davvero un ragazzaccio, un  disubbidiente e uno svogliato, che invece di andare a scuola, va coi compagni a  fare lo sbarazzino! 
Appena ebbe pronunziate  queste parole, il suo naso raccorcì e tornò della grandezza naturale, come era  prima. 
— E perché sei tutto bianco  a codesto modo? — gli domandò a un tratto il vecchietto. 
— Vi dirò… senza  avvedermene, mi sono strofinato a un muro, che era imbiancato di fresco, —  rispose il burattino, vergognandosi a confessare che lo avevano infarinato come  un pesce, per poi friggerlo in padella. 
— O della tua giacchetta,  de’ tuoi calzoncini e del tuo berretto che cosa ne hai fatto? 
— Ho incontrato i ladri e  mi hanno spogliato. Dite, buon vecchio, non avreste per caso da darmi un po’ di  vestituccio, tanto perché io possa ritornare a casa? 
— Ragazzo mio, in fatto di  vestiti, io non ho che un piccolo sacchetto, dove ci tengo i lupini. Se vuoi,  piglialo: eccolo là. 
E Pinocchio non se lo fece  dire due volte: prese subito il sacchetto dei lupini che era vuoto, e dopo  averci fatto colle forbici una piccola buca nel fondo e due buche dalle parti,  se lo infilò a uso camicia. E vestito leggerino a quel modo, si avviò verso il  paese. 
Ma, lungo la strada, non si  sentiva punto tranquillo; tant’è vero che faceva un passo avanti e uno indietro  e, discorrendo da sé solo, andava dicendo: 
— Come farò a presentarmi  alla mia buona Fatina? Che dirà quando mi vedrà?… Vorrà perdonarmi questa seconda birichinata?…  Scommetto che non me la perdona!… oh! non me la perdona di certo… E mi sta il  dovere: perché io sono un monello che prometto sempre di correggermi, e non  mantengo mai!… 
Arrivò al paese che era già  notte buia, e perché faceva tempaccio e l’acqua veniva giù a catinelle, andò  diritto diritto alla casa della Fata coll’animo risoluto di bussare alla porta  e di farsi aprire. 
Ma, quando fu lì, sentì  mancarsi il coraggio, e invece di bussare si allontanò, correndo, una ventina  di passi. Si avvicinò una seconda volta alla porta, e non concluse nulla: si  avvicinò una terza volta, e nulla: la quarta volta prese, tremando, il battente  di ferro in mano, e bussò un piccolo colpettino. 
Aspetta, aspetta,  finalmente dopo mezz’ora si aprì una finestra dell’ultimo piano (la casa era di  quattro piani) e Pinocchio vide affacciarsi una grossa Lumaca, che aveva un  lumicino acceso sul capo, la quale disse: 
— Chi è a quest’ora? 
— La Fata è in casa? —  domandò il burattino. 
— La Fata dorme e non vuol essere svegliata: ma tu chi sei? 
— Sono io! 
— Chi io? 
— Pinocchio. 
— Chi Pinocchio? 
— Il burattino, quello che  sta in casa colla Fata. 
— Ah! ho capito, — disse la  Lumaca. — Aspettami costì, che ora scendo giù e ti apro subito. 
— Spicciatevi, per carità,  perché io muoio dal freddo. 
— Ragazzo mio, io sono una  lumaca, e le lumache non hanno mai fretta. 
Intanto passò un’ora, ne  passarono due, e la porta non si apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal  freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso, si fece cuore e bussò una  seconda volta, e bussò più forte. A quel secondo colpo si aprì una finestra del  piano di sotto e si affacciò la solita Lumaca. 
— Lumachina bella, — gridò  Pinocchio dalla strada, — sono due ore che aspetto! E due ore, a questa  serataccia, diventano più lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità. 
— Ragazzo mio — gli rispose  dalla finestra quella bestiola tutta pace e tutta flemma, — ragazzo mio, io  sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta. 
E la finestra si richiuse. 
Di lì a poco suonò la  mezzanotte: poi il tocco, poi le due dopo mezzanotte, e la porta era sempre  chiusa. 
Allora Pinocchio, perduta  la pazienza, afferrò con rabbia il battente della porta per bussare un gran  colpo da far rintronare tutto il casamento: ma il battente che era di ferro,  diventò a un tratto un’anguilla viva, che sgusciandogli dalle mani sparì nel  rigagnolo d’acqua in mezzo alla strada. 
— Ah, sì? — gridò Pinocchio  sempre più accecato dalla collera. — Se il battente è sparito, io seguiterò a  bussare a furia di calci. 
E tiratosi un poco  indietro, lasciò andare una solennissima pedata nell’uscio della casa. Il colpo  fu così forte, che il piede penetrò nel legno fino a mezzo: e quando il  burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta fatica inutile: perché il piede  c’era rimasto conficcato dentro, come un chiodo ribadito. 
Figuratevi il povero  Pinocchio! Dové passare tutto il resto della notte con un piede in terra e con quell’altro  per aria. 
La mattina, sul far del  giorno, finalmente la porta si aprì. 
Quella brava bestiola della  Lumaca, a scendere dal quarto piano fino all’uscio di strada, ci aveva messo  solamente nove ore. Bisogna proprio dire che avesse fatto una sudata! 
— Che cosa fate con codesto  piede conficcato nell’uscio? — domandò ridendo al burattino. 
— È stata una disgrazia.  Vedete un po’, Lumachina bella, se vi riesce di liberarmi da questo supplizio. 
— Ragazzo mio, così ci  vuole un legnaiolo, e io non ho mai fatto la legnaiola. 
— Pregate la Fata da parte  mia!… 
— La Fata dorme e non vuol  essere svegliata. 
— Ma che cosa volete che io  faccia inchiodato tutto il giorno a questa porta? 
— Divèrtiti a contare le  formicole che passano per la strada. 
— Portatemi almeno qualche  cosa da mangiare, perché mi sento rifinito. 
— Subito! — disse la  Lumaca. 
Difatti dopo tre ore e  mezzo Pinocchio la vide tornare con un vassoio d’argento in capo. Nel vassoio  c’era un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche mature. 
— Ecco la colazione che vi  manda la Fata, — disse la Lumaca. 
Alla vista di quella grazia  di Dio, il burattino sentì consolarsi tutto. 
Ma quale fu il suo  disinganno, quando incominciando a mangiare, si dové accorgere che il pane era  di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di alabastro,  colorite al naturale. 
Voleva piangere, voleva  darsi alla disperazione, voleva buttar via il vassoio e quel che c’era dentro:  ma invece, o fosse il gran dolore o la gran languidezza di stomaco, fatto sta  che cadde svenuto. 
Quando si riebbe, si trovò  disteso sopra un sofà, e la Fata era accanto a lui. 
— Anche per questa volta ti  perdono, — gli disse la Fata, — ma guai a te se me ne fai un’altra delle tue!… 
Pinocchio promise e giurò  che avrebbe studiato, e che si sarebbe condotto sempre bene. E mantenne la  parola per tutto il resto dell’anno. Difatti, agli esami delle vacanze, ebbe  l’onore di essere il più bravo della scuola; e i suoi portamenti, in generale,  furono giudicati così lodevoli e soddisfacenti, che la Fata, tutta contenta,  gli disse: 
— Domani finalmente il tuo  desiderio sarà appagato! 
— Cioè? 
— Domani finirai di essere  un burattino di legno, e diventerai un ragazzo perbene. 
Chi non ha veduto la gioia  di Pinocchio, a questa notizia tanto sospirata, non potrà mai figurarsela.  Tutti i suoi amici e compagni di scuola dovevano essere invitati per il giorno  dopo a una gran colazione in casa della Fata, per festeggiare insieme il grande  avvenimento: e la Fata aveva fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e  quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra. Quella giornata prometteva  d’essere molto bella e molto allegra, ma… 
Disgraziatamente, nella  vita dei burattini c’è sempre una ma, che sciupa ogni cosa. 
 | 
  | 
CAPÍTULO XXIX 
Vuelve Pinocho a casa del Hada. --Gran merienda de café con leche para solemnizar el éxito de Pinocho en sus exámenes. 
 
Cuando el pescador se disponia a echar a Pinocho en la   sartén, entró en la gruta un enorme perro, atraído por el olor del   pescado frito. 
              --¡Largo de aquí!-- gritó el pescador amenazándole, y teniendo siempre en la mano el muñeco. 
              Pero el pobre animal tenía un hambre terrible, y grunía y meneaba la cola, como queriendo decir: 
              --¡Dame un poco de pescado frito y te dejaré en paz! 
              --¡Largo de aquí, te digo!-- repitió el pescador, alargando la pierna como para darle un puntapie. 
              Entonces el perro, que cuando le apretaba el hambre de   verdad no tenía miedo a nada, se volvió furioso contra el pescador,   enseñandole los terribles colmillos. 
              Al mismo tiempo se oyó en la gruta una vocecita muy débil, que dijo: 
              --¡Sálvame, Chato, que me van a freir! 
              El perro conoció en el acto la voz de Pinocho, y observó   con gran asombro que la voz salía de aquel bulto enharinado que el   pescador tenía en la mano. 
              ¿Y qué hizo? Pues, dando un salto, tomó delicadamente   entre los dientes al muñeco enharinado, y salió de la gruta corriendo   como el viento. 
              Furioso el pescador de que le arrebataran aquel pez que   pensaba comer con tanto gusto, trató de alcanzar al perro; pero apenas   había dado algunos pasos, le acometió un golpe de tos que le hizo volver   atras. 
              Mientras tanto, Chato había llegado a la senda que   conducía a la población, y depositó en tierra a su amigo Pinocho. 
              --¡Cuanto tengo gue agradecerte!-- dijo el muñeco. 
              --¡Nada absolutamente!-- respondió el perro--. Tú me   salvaste a mí, y todo tiene su pago en este mundo: hay que ayudarse unos   a otros. 
              --Pero, ¿cómo es que me has encontrado en aquella gruta? 
              --Es que seguía tendido en la playa, mas muerto que vivo,   cuando el aire me trajo un olorcillo a pescado frito que me abrió el   apetito de par en par; así es que: me levanté para ir al sitio de donde   venía aquel olor. ¡La verdad es que si llego un minuto más tarde...! 
              --¡No me lo digas!-- exclamó Pinocho, que aún temblaba de   miedo--. ¡No me lo recuerdes! ¡Si llegas un minuto más tarde, a estas   horas estaría yo frito con patatas! ¡Uf! ¡Sólo de pensarlo me   estremezco! 
              Chato no pudo menos de reirse, y tendió su mano derecha al   muñeco que la estrechó anmistosamente, y después se separaron. 
              El perro tomó el camino de su casa, y Pinocho se dirigió   hacía una cabaña que estaba cerca de allí, y preguntó a un viejecito que   se hallaba en la puerta calentándose al sol: 
              --Dígame, buen hombre: ¿sabe usted algo de un muchacho que fue herido en la cabeza, y que se llama Paquito? 
              --A ese muchacho le trajeron unos pescadores a esta cabaña; pero ya... 
              --¿Pero ya habrá muerto?-- interrumpió Pinocho con gran dolor. 
              --No; ahora ya está bueno, y se ha marchado a su casa. 
              --¿De veras? ¿Es verdad eso?-- gritó el muñeco saltando de alegría--. ¿De modo que la herida no era grave? 
              --Pero podía haber resultado gravísima, y aun mortal--   respondió el viejecito--, porque le tiraron a la cabeza un grueso libro   encuadernado en cartón. 
              --¿Y quién se lo tiró? 
              --Un compañero de escuela, llamado Pinocho. 
              --¿Y quién es ese Pinocho?-- preguntó el muñeco, haciendose el ignorante. 
              --Dicen que es un niño muy malo, un holgazán, un pícaro de tomo y lomo. 
              --¡Calumnias! ¡Todo eso son calumnias! 
              --¿Conoces a Pinocho? 
              De vista-- contestó el muñeco. 
              --¿Y qué concepto tienes formado de él? 
              --Pues a mí me parece que es un excelente muchacho, que   tiene gran amor al estudio, obediente, muy amante de su papá y de toda   la familia. 
              Mientras el muñeco decía todas estas mentiras con la mayor   frescura, se echó mano a la nariz, y observó que habia crecido más de   un palmo. Entonces empezó a chillar lleno de miedo: 
              --¡No haga usted caso de todo lo que le he dicho, buen   hombre, porque conozco perfectamente a Pinocho, y puedo asegurarle   también yo que es un muchacho malo, desobediente y holgazán, y que en   vez de ir a la escuela se va con los compañeros a vagar por ahí! Apenas   hubo terminado de decir estas palabras, se acortó su nariz, y quedó del   tamaño que tenía antes. 
              --¿Y por que estás así pintado de blanco!-- preguntó poco después el viejecito. 
              --Le diré a usted: sin darme cuenta, me he restregado   contra un muro que estaba recién blanqueado-- respondió el muñeco,   dándole verguenza confesar que había sido enharinado como un pescado,   para freirle después en olla sartén. 
              --¿Y qué has hecho de la chaqueta, de los calzones y del gorro? 
              --Me he encontrado con unos ladrones que me lo han quitado   todo. Dígame, buen hombre: ¿No podría usted darme, por casualidad, algo   con que pudiera vestirme para volver a mi casa? 
              --Hijo mío, no tengo ningún traje que poder darte: solo   tengo un saco pequeño para guardar chufas. Si lo quieres, mirarlo: aquí   está. 
              No se lo hizo decir Pinocho dos veces: tomó en el acto el   saco, que estaba vacío, haciéndole, con unas tijeras que pidió una   abertura en el fondo y otras dos a los lados, se lo endozó a modo de   camisa. 
              Vestido de este modo tan ligero, se dirigió a la   población; pero al llegar al camino empezba titubear, tan pronto   avanzando como retrocediendo, y diciéndose para sus adentros: 
              --¿Cómo me presentaré a mi buena Hada? ¿Qué dirá cuando me   vea? ¿Querrá perdonarme esta segunda diablura? ¡Me temo que no me la va   a perdonar! ¡Oh, de seguro que no! !Y me estará bien empleado, porque   soy un monigote que siempre estoy prometiendo corregirme, y nunca lo   hago! 
              Entró en la población siendo ya noche cerrada; y como   estaba lloviendo a cántaros, decidió ir derechito a la casa del Hada y   llamar a la puerta hasta que le abrieran. 
              Al llegar frente a la casa sintió que le faltaba el valor,   y en vez de llamar se alejó corriendo como unos veinte pasos. Volvio   segunda vez, pero también se apartó sin hacer nada. Volvió tercera vez, y   lo mismo. Sólo a la cuarta vez se atrevió a levantar, temblando, el   llamador de hierro y a dar un golpecito muy suave. 
              Esperó pacientemente, y al cada de media hora se abrió una   ventana del último piso (la casa tenía cuatro), y vio Pinocho asomarse   un caracol muy grande, con una vela encendida en la cabeza, que   preguntó: 
              --¿Quién llama a estas horas? 
              --¿Está el Hada en casa? 
              --El Hada está durmiendo, y no quiere que se la despierte. 
              ¿Quién eres tú? 
              --Soy yo. 
              --¿Quién? 
              --Pinocho. 
              --¿Qué Pinocho? 
              --El muñeco que vive en esta casa con el Hada. 
              --¡Ah, ya sé!-- dijo el caracol--. Espérame, que ahora bajo y te abriré en seguida. 
              --¡Anda de prisa, por caridad porque estoy muriéndome de frío! 
              --Hijo mío, yo soy un caracol, y los caracoles no tenemos nunca prisa. 
              Pasó una hora, y pasó otra sin que se abriera la puerta,   por lo cual Pinocho, que estaba completamente calado de agua y que   temblaba de frío y de miedo, cobró ánimo y llamó segunda vez, pero algo   más fuerte que la primera. 
              A esta segunda llamada se abrió una ventana del piso de   más abajo, o sea del piso tercero, y se asomó el mismo caracol. 
              --¡Buen caracol!-- gritó Pinocho desde la calle--. Hace   dos horas que estoy esperando, y dos horas con esta noche tan mala   parecen dos años. ¡Date prisa, por caridad! 
              --¡Hijo mío!-- le respondio desde la ventana aquel animal   tan tranquilo y flemático--, yo soy un caracol, y los caracoles no   tenemos nunca prisa. 
              Y volvió a cerrarse la ventana. 
              Sonó poco después la media noche, sonó la una, sonaron las dos, y la puerta siempre cerrada. 
              Entonces perdió Pinocho la paciencia, y agarró con rabia   el llamador para dar un golpe que hiciera retemblar toda la casa; pero   aquel llamador, que era de hierro, se convirtió en una anguila viva, que   escurriéndose entre las manos desapareció en el arroyo de agua que   corría por el centro de la calle. 
              --Sí, ¿eh?-- gritó Pinocho, cada vez más lleno de cólera--   ¡Pues si el llamador ha desaparecido, yo seguiré llamando a fuerza de   patadas! 
              Y echándose un poco hacia atrás, pegó una furiosa patada   en la puerta de la casa. Tan fuerte fue el golpe, que penetró el pie en   la madera cerca de la mitad, y cuando el muñeco quiso sacarlo, fueron   inútiles todos sus esfuerzos, porque se había introducido como si fuera   un clavo. 
              ¡Figuraos en qué postura quedó el pobre Pinocho! Tuvo que   pasarse toda la noche con un pie en tierra y el otro en el aire. 
              Por últlmo, al ser de día se abrió la puerta. Aquel   excelente caracol no había tardado en bajar desde el cuarto piso a la   calle nada más que nueve horas, y aun así llegó sudando. 
              --¿Qué haces con ese pie metido en la puerta!-- preguntó riendo al muñeco. 
              --Ha sido una desgracia que me ha ocurrido. ¿Quieres probar a ver si puedes librarme de este suplicico? 
              --¡Hijo mío, eso es cosa del carpintero, y yo no soy carpintero! 
              --Díselo al Hada, de mi parte. 
              --El Hada está durmiendo y no quiere que se le despierte. 
              --Pero, ¿qué quieres que haga clavado todo el día en esta puerta? 
              --Entretente en contar las hormigas que pasan por el camino. 
              --¡Tráeme, al menos, algo de comer, porque estoy desfallecido! 
              --¡En seguida!-- dijo el caracol. 
              Al cabo de tres horas y media volvió, trayendo en la   cabeza una bandeja de plata, en la cual había un pan, un pollo asado y   cuatro albarioques maduros. 
              --¡Ahí tienes el desayuno que te envía el Hada!-- dijo el caracol. 
              Al ver tan excelente comida se tranquilizó algo Pinocho;   pero, ¡cuál no sería su desengaño cuando, al tratar de comer, se   encontró con que el pan era de yeso, el pollo de cartón y los   albaricoques de cera, aunque todo tan bien hecho, que parecía de verdad! 
              Se echó a llorar, y lleno de desesperación quiso tirar a   lo lejos la bandeja de plata y todo ]o que contenía; pero no llegó a   hacerlo porque, fuese efecto del dolor o de la debilidad de estómago, se   desmayó. 
              Cuando recobró el conocimiento se encontró tendido en un sofá y con el Hada a su lado. 
              --También te perdono por esta vez-- le dijo el Hada--; pero, ¡pobre de ti si vuelves a hacer otra de las tuyas! 
              Pinocho prometió firmemente estudiar y ser bueno, y   cumplió su promesa todo el resto del año. Cuando llegaron los exámenes   que se celebraban antes de las vacaciones, tuvo el honor de ganar el   primer premio: y tan satisfactorio fue en general su comportamiento, que   el Hada le dijo muy contenta: 
              --Para celebrar tu triunfo, vamos a convidar a merendar a tus amigos. 
              Pinocho se puso muy contento. 
              Quien no haya presenciado la alegría de Pinocho al oír   esta inesperada noticia, no podrá figurársela. Todos sus amigos y   compañeros de escuela debían ser invitados para una merienda que había   de celebrarse al día siguiente en la casa del Hada, para solemnizar el   gran acontecimiento, El Hada había mandado preparar doscientas tazas de   cafe con leche y cuatrocientos panecillos untados de manteca por dentro y   por fuera. Aquella fiesta prometía ser muy alegre y divertida; pero... 
              Por desgracia, siempre había en la vida de aquel muñeco un pero que todo lo echaba a perder.  |