|   | 
Cronache a memoria  
            Giuseppe Cesare Abba  
            1910 
In quelle parti sopra il Monferrato che si chiamano Langhe, dove il  dilagare della rivoluzione francese era stato sentito prima che nelle altre  terre subalpine; passati che furono i tempi di Napoleone, la vita a poco a poco  tornò a correre quasi quale un mezzo secolo avanti. Con un po' d'arte, lo Stato  e la Chiesa vi rimisero tutto nell'antico andare; molta disciplina civile,  molte pratiche religiose, indussero di nuovo il sentimento dell'esser vivi  ognuno a godere il poco a lui possibile e ad espiare la sua parte del peccato  originale: molta rassegnazione, molto dubbio dei così detti beneficii lasciati dalla  rivoluzione, alcuni dei quali veramente non si potevano disconoscere, ed erano,  tra gli altri, le opere pubbliche, le grandi strade aperte da Napoleone.  Queste, sì, erano fatti; ma, insomma, egli stesso, Napoleone, per far quel poco  di buono e durevole, aveva dovuto mettersi in capo una corona. E questa non gli  era neppur bastata. Non avevano visto tutti? Appena egli se l'era presa col  Papa, giù su lui le disgrazie! Era caduto nel nulla col suo impero. Che cosa  giovava che in ogni città o borgo ci fosse qualcuno divenuto grande sotto di  lui e che in tutti i casati ci fossero degli uomini che avevano girato per lui  l'Europa, dalla Spagna alla Russia? Solo guadagno fatto da loro il potersi  vantare d'aver servito quell'uomo, di parlare e di bestemmiare un po' il  francese, di ricordare qualche frase d'altre lingue dei paesi dove erano stati  condotti alla guerra o dove avevano vissuto da prigionieri. Chi aveva portato a  casa qualcosa? Uno diceva di aver nascosto un tesoro in un bosco o a piè di una  pila di ponte nella tal città dell'Austria, e vecchio cercava ancora invano chi  volesse andare con lui a ritrovarlo: un altro aveva viaggiato con lo zaino  pieno di zafferano tolto nel saccheggio d'una città spagnuola, ma diceva che  poi, scoperto dai superiori, questi glielo avevano levato, e se ne mordeva  ancora le mani: molti mostravano delle cicatrici testimonianze d'un gran  coraggio, ma stringevano tutti pugni di mosche. Godevano d'essere stati ciò che  erano stati, grandi soldati, ecco tutto: ma in cuor loro dovevano dire che se  fossero tornati i tempi e la gioventù, non essi sarebbero tornati a quella  gloria. Vera gloria era sempre stata e doveva divenire di nuovo il vivere  umilmente contenti nel posto che la Provvidenza aveva assegnato a ciascuno,  solo migliorandoselo con le proprie forze senza danno del prossimo: interesse e  timor di Dio, amare il Principe, venerare il Papa e la gerarchia, ubbidire i  genitori, farsi ubbidire dai figli, pensare all'anima e rispettare le autorità  sotto le quali si era immediatamente posti. Che cosa si voleva di più bello che  una vita tutta d'ordine, in cui il Re si curava del bene terreno dei sudditi e  la Chiesa delle cose spirituali dei fedeli? In quanto al rispetto, questo aveva  ripreso le sue forme antiche, cominciando dalla famiglia. Nelle case signorili  si dava del lei ai nonni e ai genitori che si davano di solito tra loro del  voi; del voi si davano i figli tra fratelli e sorelle: in quelle del popolo, il  voi correva pure tra marito e moglie, del voi si davano tra di loro i figli; e  se questi si davano del tu passavano per maleducata plebe. 
  C'erano ancora dei vecchi Giacobini che avevano assorbito lo spirito  rivoluzionario fin da quando erano passati i primi francesi da Montenotte, e  non si erano mai ravveduti; ma tacevano, e bastava lasciarli morire  naturalmente ad uno ad uno. Se qualcuno di essi aveva qualche volta alzata la  voce, la aveva alzata subito più di lui qualcun altro che era stato barbetto e a ricordo di tutti s'era vantato d'aver da giovane seppellito più d'un francese  di quei primi venuti, colti sbandati per la campagna, nei tempi delle loro  invasioni o della loro ritirata del 1799. E il giacobino taceva, per non essere  mandato ramingo nel mondo. Dunque la convivenza civile si era rimessa nella  tranquillità, proprio così come aveva vissuto prima di quella brutta  interruzione dei francesi e del loro Napoleone. 
  Così pensavano in alto le grandi autorità, dei cui ordini erano esecutori  zelanti in basso il sindaco, il parroco, il brigadiere. Quando questi tre erano  d'accordo nel giudicare male d'un uomo, questi, poveretto lui! E non ci voleva  molto a farsi colpire. Un bottegaio non chiudeva bene l'uscio del suo negozio  prima dell'ultimo tocco per le funzioni sacre? Guai se si avvedeva il  brigadiere. Questi entrava, tirava fuori il disgraziato pel bavero e lo  trascinava in chiesa. Ciò lì per lì, ma poi appresso si sarebbe visto che  fargli. Dispiaceva a qualcuno che quei tre condannassero troppo? Mormorava? Una  buona lettera al comandante della provincia, ed egli era bell'e servito. Per  cose poi di maggior importanza in cui entrasse ombra di maltalento verso il  Governo, c'era la minaccia sempre paurosa della Sardegna, delle Saline; e si  sapeva che di quelli che v'erano stati portati, come si diceva in proverbio, a  zappare il sale, pochi ne erano ritornati. 
  Di scuole, ma solo nei borghi d'importanza, c'erano quelle dove s'imparava  a leggere, scrivere e a far conti. Il maestro era quasi dappertutto un  sacerdote che sovrattutto sapeva far tremare. Sotto di lui si raccoglieva il  piccolo numero di ragazzi delle famiglie principali e quelli della gente  mezzana che aveva qualche voglia, possibilità o speranza di far di loro  alcunché di più che non era stata fatta essa stessa. Ma ad essi doveva bastare  d'apprendere a far di propria mano un biglietto od un conto. Ed erano già dei  fortunati, perché per le vie brulicava il resto dei fanciulli, che erano il  maggior numero, cui la poca cura dei genitori, occupati a guadagnare loro il  pane, e il disprezzo dei maestri tenevano lontani dalla scuola, dove per altro  non c'era posto che per quegli altri pochi. In quello studio elementare, i  figli dei ricchi stavano uno o due anni, poi passavano in una classe che si  chiamava grammatichetta, ai rudimenti del latino; da questa salivano  alla grammatica fatta di solito da un altro sacerdote più valente, che presto  li metteva a tradurre il Da Kempis, per indurre in essi lo spirito che doveva  giovar loro a non lasciarsi guastare da altri studi l'anima cristiana. E poi  andavano ai collegi nella città vicina, per l'umanità, la rettorica, la  filosofia, donde infine agli studi universitari. Gli altri di mezza condizione,  duravano tre o quattro anni nella prima scuola; pochissimi per vaghe speranze  seguivano i compagni nella grammatichetta, e lì, o si arrestavano delusi,  però sempre in tempo d'andare a qualche mestiere, o aiutati tiravano allora  avanti se avevano ingegno, e alla fine si volgevano al seminario per farsi  preti. Se mancava loro l'aiuto e rimanevano nel secolo, divenivano un po' di  tutto e soprattutto parassiti; buoni però a cantare in coro e nelle processioni  senza sconciare il latino. Ma alcuni volenterosi e più arditi, ritornate le  vecchie usanze con certi privilegi feudali di parecchi marchesi della regione,  andavano a impratichirsi di leggi o di medicina da avvocati e medici di  reputazione, poi da quei marchesi venivano titolati medici, chirurghi o almeno  flebotomi e procuratori e notai, con diritto d'andar a lavorare tra le genti di  quelle parti, ma per farsi far guerra dai laureati veri. 
  La regione era povera per natura. Deserta langarum, avevano sempre  detto gli antichi, e pare che così fosse stata chiamata fin dai tempi romani.  Ma il feudalismo che l'aveva incastellata e sbocconcellata, l'aveva pure  disselvatichita; e di esso, da quando il re di Sardegna lo aveva assorbito,  v'era rimasto con i mali il po' di bene della mezzadria, per cui di vera  miseria non vi moriva nessuno. Vi veniva abbondante il benedetto granoturco,  che i langaioli goderono sempre di credere fosse stato portato piccolo,  gelosamente, e affidato perché lo propagasse a un parroco di Val di Belbo, da  due cavalieri reduci dalle Crociate. Vi prosperavano pure i vigneti. E v'era  qualche industria che aiutava a vivere chi non lavorava la terra. Nelle parti  delle valli più in su, dovunque scorre un po' delle acque che cascano al  Tanaro, al Belbo, alle Bormide, erano state erette da antico delle ferriere, e  queste davano da lavorare ai mulattieri che andavano a caricar la vena  dell'Elba nei piccoli porti della riviera d'occidente, e ne davano ai  boscaiuoli e ai carbonari. A mezze le valli prosperavano i filatori di seta che  raccoglievano i bozzoli da tutti coloro cui non conveniva fare come certe  famiglie più al largo, le quali facevano la trattura in casa nelle proprie  bacinelle, e vendevano poi la seta a comodo loro, segno di patriarcale  rispettata agiatezza. 
  Miseria vera dunque no, ma ogni borgo aveva un suo proprio numero di  mendicanti, cui la popolazione riconosceva un certo diritto a essere mantenuti  per carità. Nell'ora dei pasti quei poveri passavano regolarmente, quasi per  turno, agli usci, dove i ragazzi erano mandati a empier loro la scodella. In  molti borghi poi, diversa dall'elemosina fatta così, ce n'era un'altra che si  riceveva due o tre volte all'anno, in certe feste, come il Corpus Domini e la  Pentecoste. Era quasi un titolo di dignità. La ricevevano le famiglie non  povere, ma neppure agiate, alle quali venivano distribuiti pani di un dato peso  o d'una data forma, o misure di frumento, da Opere pie, su lasciti antichi. Il riceverla  era un diritto geloso, l'accettarla un atto di umiltà che piaceva ai ricchi e  agli agiati, perché segnava la loro superiorità sulla gente sotto la mezzana,  con cui per forza, nel piccolo andare della vita quotidiana, dovevano stare a  contatto. 
  E i ricchi si divertivano. Né per essere detti ricchi occorreva avere dei  milioni. Di milionari anzi ce n'erano pochi, e per lo più nobili eredi di  castelli. Gli altri, chi aveva le centomila lire in beni poteva già guardare  molto dall'alto; e d'una giovinetta da marito che recasse una dote d'alcune  mezze dozzine di migliaia, si diceva che chi la sposasse andrebbe quasi a  mettere il cappello al chiodo. I ricchi dunque si divertivano consumando i  redditi delle loro possessioni divisi a mezzo coi lavoratori che essi  chiamavano loro contadini, con tono di dominio benevolo; e questi  parlando di loro godevano di chiamarli padroni. Ma li avrebbero stimati  meno degni di tal titolo, se se li fossero visti fra piedi a immischiarsi delle  coltivazioni. I pochissimi che pensavano a migliorarle davano quasi scandalo.  Che strana cosa udire un signore parlare d'aratri, di concimi, di sementi! Non  c'erano loro contadini che se ne intendevano? I ricchi badassero divertirsi! E  i ricchi si divertivano. Da una borgata all'altra s'invitavano in brigate  allegre tutto l'anno a festini, a caccie, a sfide nel pallone. I carnevali  erano gare a chi durasse più notti in veglie, in cene, in bagordi; poi la  quaresima veniva a rimettere in onestà ogni cosa. Passavano i missionari a  purificare l'aria, e le anime ritornavano monde ad aspettare gioie nuove. 
  E così tutto andava avanti in pace. Il male c'era, si sa, ma ognuno sapeva  appena i fatti brutti e delittuosi che avvenivano, per dir così, a portata di  voce, non come ora noi che, stando in qualsiasi cantuccio, si viene a sapere  quelli di tutto il mondo; e perciò parevano pochi. Ma pace non v'era tra le  famiglie elevate della cittadinanza: queste vivevano divise da invidie e da  odii profondi per prevalere e dominare; si designavano tra loro con nomignoli  di scherno, contendevano apertamente per cose da nulla: il banco in chiesa un  po' più in sù verso l'abside era oggetto di vive gare; il non lasciar entrare  l'avversario nel Consiglio del Comune, l'impedirgli le vie di divenir sindaco,  erano cure astiose; vigilanti a vicenda, tirare ciascuno a far cascare l'altro  in disgrazia del Governo era uno studio oscuro, ma voluttuoso. Correvano le  lettere anonime, comparivano scritterelli vituperosi che, tanto per dar loro un  nome, la gente chiamava satire o sonetti. Ma guai agli autori se venivano  scoperti: se ne immischiava subito l'autorità, e, se le satire toccavano un po'  in sù, perfino i governatori delle provincie, terribili uomini che di solito  facevano piangere. Ma qualche volta quei governatori erano anche lodati per  certi loro modi duri e spicci di far giustizia vera e d'imporre silenzio; però  si trattava di casi in cui era difficile errare. In ogni modo, avevano sempre  giudicato bene quale che fosse stato il loro giudizio, perché il Re che era padrone  di tutti si faceva con essi dei grandi riguardi: erano cari alle grandi  potenze, alla Santa Alleanza, che forse glie li aveva messi intorno a  sorvegliare anche lui. 
  Ma dopo il 1830 quei governatori divennero inquieti. Non era stato un buono  acquisto pel re di Sardegna il territorio della repubblica di Genova. Bella  giunta, sì, e ricca al suo regno, mai quei liguri erano imbevuti delle loro  vecchie idee di libertà e riottosi. I popolani, anche i villici, guardavano di  malocchio i piemontesi e li pungevano con ironia nel loro difficile dialetto. I  più derisi erano i langaioli, specialmente quelli delle terre che per  contiguità l'amministrazione aveva messe a far parte delle provincie marittime  di nuovo acquisto. Essi non potevano discendere dai loro monti tra quei  genovesi senza sentirsi canzonare. Gaggia! gridavano loro i volghi,  facendo l'atto di fiutare in aria l'odore del bel fiore giallo; e intendevano  di dire polenta, come se i piemontesi non si nutrissero d'altro. Ma  questo era il minor male: il grosso veniva dalla nobiltà genovese che era  entrata in Corte, nell'esercito, nelle magistrature. Dispotica a casa sua,  aveva portato nelle cariche e negli uffici uno spirito d'indipendenza, quasi di  renitenza pericolosa. Eppure anche questa divenne prestissimo una questione  secondaria, perché da Genova era venuto fuori un giovane senza legge né fede,  con certe sue idee sull'Italia da far piantar le forche in tutte le piazze, se  fosse stato ascoltato. Giovane Italia! Che cosa voleva dire colui con queste  parole? E predicava la repubblica. Perché quando lo avevano chiuso nella  fortezza di Savona non ve lo avevano addirittura murato? Lo avevano lasciato  andare in esilio, che per lui aveva voluto dire libertà di andar a fare il male  da lontano peggio che da vicino. Intanto egli aveva osato scrivere a Carlo  Alberto Re nuovo una lettera piena di consigli, d'intimazioni, di minaccie; in  pochissimo tempo aveva fatto proseliti dappertutto, fin nell'esercito, che si  chiamavano dal suo nome mazziniani; poi questi avevano aspettato la sua venuta  in Piemonte alla testa di tutti i fuorusciti, per palesarsi e insorgere in  armi. E difatti egli aveva tentato il colpo della Savoia, onde era bisognato  disperdere lui e gli invasori e dentro il regno mettere mano ai rigori, empire le  prigioni, fucilare borghesi e soldati, non più in effigie soltanto come nel  Ventuno. 
  Dal loro punto di veduta, quei governatori avevano ragione. Convinti di  essere i difensori della giustizia sociale quale doveva essere per diritto  divino, erano sensibilissimi a intuir tutto ciò che si manifestava fuori  dell'ordine concepito dalla loro mente: e tutto intorno ad essi veramente si  risvegliava. La rivoluzione francese del 1789 vista da loro sorgere, e, come  avevano creduto, finire in Napoleone, non era stata una meteora; voleva  ricominciare, anzi era ricominciata in Francia e minacciava di propagarsi al  Piemonte, dove fors'anche in Carlo Alberto si poteva risvegliare il  cospiratore. Per fortuna erano stati bravi i ministri a fargli assaggiare il  sangue delle sentenze di morte dei mazziniani, perché così egli era tornato  odioso ai liberali che ricordavano il Ventuno; ma insomma anche per i ministri  e per l'aristocrazia era misterioso: pareva che persin da lui qualche cosa si  diffondesse nell'aria che, nonostante tutto, incoraggiava a non aver più tante  paure, a camminare finalmente con la testa un po' meno bassa. 
  E infatti verso il Quaranta v'erano già degli uomini che non negavano più  se altri diceva loro che avevano avuto degli affettuosi riguardi pei costipati del Ventuno, d'averli ospitati e trattati bene quando erano passati per la  valle della Bormida fuggitivi. E questo, come se l'aria si fosse rischiarata  via via sempre più, e si potesse mostrarsi senza tema di dare in qualche  malpasso, vi furono pur degli altri che cominciavano a vantarsi di aver nel  Ventuno tentato di strappare agli sbirri un famoso costipato, Amedeo  Ravina, d'un certo villaggio di quelle Langhe chiamato Gottasecca.  Narravano che colui si era rifugiato nel porto di Savona su d'una nave spagnuola  e che il comandante della città, il Rufini, fanatico del proprio potere, aveva  mandato le sue guardie a catturarlo, senza riguardo alla bandiera di Spagna.  Dicevano che, saputosi che il Ravina doveva passare dalle loro parti, per  essere condotto al processo di Torino, essi si erano appostati in una delle  giravolte della strada che sale a Montezemolo, e che quando il prigioniero era  comparso tra le guardie si erano lanciati per liberarlo. Ma egli tranquillo  aveva gridato loro di star buoni, di non far del male a quei poveri diavoli, di  andarsene e tenersi segreti, perché l'ambasciatore di Spagna lo avrebbe fatto  liberar lui. E questo era poi proprio avvenuto, e quei generosi che per anni  avevano tremato d'essere scoperti, venuti tempi d'arie nuove, lasciavano dire o  dicevano essi stessi d'essere stati a quel procinto. Di quel Ravina e d'altri  molti langaioli profughi si parlava con rispetto e con desiderio,  nessuno osava più dirne male apertamente, nemmeno coloro che avevano fatto  festa agli austriaci del Ventuno. 
  Ma altre cose si udivano poi verso il Quaranta. Sebbene il fisco fosse  discreto e tasse se ne pagassero poche e leggere, si diceva che Carlo Alberto  raccoglieva tesori e che a Torino avevano dovuto puntellare persin le volte di  certe stanze dei palazzi reali, perché pericolavano dal tanto denaro che vi si  era ammassato. Allora novità lieta fu l'udire che era stata creata una  compagnia di soldati vestiti così e così, col cappello piumato, armati di  carabine perfette, capaci essi di arrampicarsi fino ai tetti delle case e i  loro superiori quasi di volarvi. E ognuno si gloriava che di quei soldati,  scelti in tutto l'esercito, molti fossero delle Langhe, chi del tal  paese, chi del tal altro, e con orgoglio si nominavano. Presto si narrò che  quei soldati avevano avuto l'abilità di fare la loro mostra in piazza San  Carlo, a piè del cavallo di bronzo, mentre passava Carlo Alberto che partiva in  carrozza per Genova, e poi di correre, di volare, per vie traverse a  Moncalieri, per mostrarsi al Re un'altra volta. Era vero, e v'erano riusciti  così bene, che il Re, sorpreso, aveva detto d'aver permesso che di quei soldati  se ne fosse formata una compagnia, e che non sapeva chi si fosse fatto lecito  di formarne due. I volghi chiamavano abbracciaglieri quei soldati,  storpiatura innocente che faceva sorridere le ragazze. E tra le tante altre  cose che si dicevano dell'esercito, correva che Carlo Alberto curasse molto che  si preparassero dei buoni cannonieri, onde i migliori costritti ambivano  d'essere destinati a quel corpo. Passavano di quando in quando torme di puledri  che drappelli di cavalleria erano andati a prendere lontano, lontanissimo, fino  a Sarzana, sui confini della Toscana. La Toscana! Era un paese, per là, chi sa  quanto ricco, in Italia. 
  Che cosa dunque c'era mai nell'aria in quegli anni, che cosa stava per  avvenire! Quando corse notizia di forti ripicchi con l'Austria di certe  questioni di dogana ai confini di Lombardia, parve di capire che qualche storia  stava per cominciare. Presto cominciò davvero. 
  Chi sentì l'aura nuova nel Quarantotto, già in età di poterne godere la  ineffabile poesia, e vide poi in poco più di vent'anni formarsi la nazione, e  campa ancora a udir la menzogna di chi, per parere d'aver perduto molto,  rimpiange i tempi di tutte le miserie; dice che gli mette conto di essere  vecchio perché ha visto la vita stagnante e oscura d'una volta, e sente la  presente libera, fervida e tanto meno meschina anche per gli intimi degli  uomini. Ma tuttavia gli pare che siamo tutti un po' ingrati, perché ci degniamo  appena di insegnare a riflettere sugli uomini e sui fatti pei quali fu potuto  vedere, per dirne una, Galateri in Alessandria far morire Andrea Vochieri,  colpevole d'essere mazziniano, e in meno di trent'anni al posto di lui,  comandante militare nella stessa città, Nino Bixio, rivoluzionario che quel  terribile avrebbe fatto fucilare tre volte e tre fatto risorgere se avesse  potuto, per farlo fucilare ancora, certissimo di far cosa giusta. È fatto  ancora più notevole per chi ricorda e medita, l'aver inteso parlare di certi  conti Galateri, prodi ufficiali che diedero le loro spade all'Italia dal 1848  al 1870. Le idee vinsero! E però si ama anche senza conoscerlo uno di quel  nome, che anni sono pregò d'esser lasciato lavorare egli stesso al marmo che  Gottasecca, lassù sulle Langhe, volle murare al suo Amedeo Ravina,  poeta, avvocato, profugo, impiccato in effigie nel Ventuno. 
  Ragazzi del quarantotto, nei giorni che Carlo Alberto era cantato da tutti  i cuori, udivano narrar dai vecchi che una notte del marzo 1821 tutto il paese  era stato svegliato dal tamburo del messo comunale, il quale nel buio andava  attorno per le vie, gridando tra rullo e rullo: Urdin du scindic, a v' farz  savèi che da duman er prinzi d' Carignan l'è nost Suvran. Dicevano che a  quei rulli, a quel grido, le genti si affacciavano alle finestre interrogandosi  a vicenda. Che cosa avete detto? chiedeva qualcuno al messo, personaggio  temuto; ma questi tirava via, rullando a pause e gridando sempre quelle parole.  E le finestre si chiudevano e si udiva aprire qualche uscio da via; venivano  fuori i più curiosi che si mettevano a girare cercandosi per sapere, e andavano  dai fornai che lavoravano al caldo. Verso l'alba era già sparso per tutte le  case che il sindaco da parecchi giorni aveva ricevuto una lettera del Governo  da dissuggellarsi soltanto alla mezzanotte tale, appunto quella, con l'ordine  di eseguire ciò che in essa lettera era prescritto. Il sindaco quella notte  aveva vegliato sino al punto delle dodici, poi aperta la lettera aveva fatto il  suo dovere; e così il suo Comune, come certamente tutti i Comuni del regno  nella stessa ora, aveva udito proclamare il Principe di Carignano: proclamarlo  addirittura Sovrano invece che reggente. Forse il messo comunale, cui il  Sindaco aveva di certo messo in bocca le parole, n'avrà omesso qualcuna che gli  sarà parsa difficile a dirsi, ma il fatto sta che quei vecchi narravano così  appunto e sempre a tutti senza mutar nulla. 
  Narravano pure che il giorno appresso era stata nel borgo una grande  agitazione e che le famiglie un po' in sù avevano fatto subito due partiti  ciascuno seguìto da una porzione di popolo, un po' di qua un po' di là. Allora  - stando ai racconti - tutti quelli che da sei o sette anni si erano chiusi in  sé per paura di pagar tutte in una volta le loro infedeltà al Re e le loro  amicizie dal tempo dei francesi, alzarono un po' la cresta; gli altri che si  erano rimessi con gioia all'antico andare e davano ad essi del giacobino, quasi  minacciando tacquero e stettero a guardare. Non sapevano che cosa potesse  avvenire: forse ricominciava qualche diavoleria alla francese come ai tempi  della loro giovinezza. 
  Appresso, un po' oggi un po' domani, la gente venne a sapere che a Torino  avevano fatta la rivoluzione, che il Re era stato svegliato un mattino per  sentirsi dare la notizia inattesa; che l'aveva ricevuta più con dolore che con  collera; e che, sebbene vecchio, si era mostrato pronto a montar a cavallo, per  andare egli stesso a mettere nell'ubbidienza la città e l'esercito. Ma, come si  diceva, i suoi consiglieri gli avevano giurato che non sarebbe stato possibile,  senza spargere sangue di soldati e di cittadini, e che perciò egli s'era  risolto a levarsi la corona, perché se la venisse a prendere il suo fratello  men vecchio, che allora stava a Modena presso il Duca suo cognato. Modena?  Doveva essere la capitale di qualche altro Stato, aveva detto la gente. Allora  parlarono quelli che erano stati soldati di Napoleone, e spiegavano, e si  volgevano a trinciar l'aria dalla parte dove stava quella città lontana. Essi  sapevano di tante altre città d'Italia, di Francia, di Spagna, d'Alemagna e fin  di Russia; ne sapevano più del sindaco, dell'arciprete, di tutti; e dicevano  pure che il Principe di Carignano non era né figlio né nipote del Re, ma un cugino  e cugino dalla larga anche, discendente di un Principe di Savoia trapiantatosi  in Francia da moltissimi anni. La genterella ascoltava, e poiché dalle cose  nuove qualche po' di bene, almeno nei primi momenti, le era sempre venuto, si  rallegrava intanto che il Governo in nome del Principe aveva calato il prezzo  del sale. 
  Poi si erano udite cose più gravi. Non ci sarebbe stato più da tremar  tanto; non più dispotismo, ma libertà. Costituzione. Voleva dire che nessun  sindaco d'accordo col parroco e col brigadiere avrebbe più potuto perseguitare,  far mettere in prigione, mandar in Sardegna nessuno. Ma gli amici del  dispotismo, quelli che non avevano smesso il codino, il cappello a luna, le  brache corte neppur nel tempo dei francesi cominciarono subito a malignare  sulla parola e sciupavano Costituzione in costipazione. 
  E presto fu  un gran movimento di soldati. Venivano richiamati alle bandiere i provinciali,  questi partivano o allegri o mormorando secondo gli umori: ma tutti sentivano  che voleva venire la guerra e che si sarebbero visti di nuovo gli alemanni. Era questo il nome usato a designare la gente che veniva dai paesi  dell'Impero; e molti, pronunciandolo, ricordavano un detto di quando gli  austriaci erano stati nelle Langhe per due anni, avanti la battaglia di  Montenotte. Meglio i francesi nemici che gli alemanni amici, era rimasto  in quel detto: gli alemanni adunque dovevano aver fatto tribolare la gente. Ma  c'era pure chi gli invocava di cuore; famiglie che quando le terre delle Langhe  erano state dell'Impero, vi avevano dominato, quasi come se qualcuno le avesse  messe al posto dei conti e dei marchesi sui ruderi dei castelli, e quelle  famiglie, anche dopo che la Casa di Savoia aveva comprate dall'Austria quelle  terre feudali, non avevano perduta la loro superbia, e del Ventuno  disprezzavano in segreto, o cautamente in palese il Governo nuovo. Sdegnavano  persino di menzionare i ministri della Costituzione. 
  Eppure correva come parola di buon augurio il nome di Santarosa, e quello  di molti nobili del Regno. Di lui si diceva che era figlio d'un colonnello,  morto nel 1796 alla battaglia di Mondovì contro i francesi, e qua o là in  quelle terre v'era chi aveva conosciuto quel valoroso per aver servito sotto di  lui nella difesa delle Alpi marittime, avanti che fosse venuto per Montenotte  nel paese il general Buonaparte. Con quegli uomini alla testa le cose dovevano  riuscir bene. 
  Invece si rallegraron ben presto coloro che s'erano rattristati o avevano  disprezzato o taciuto per aspettare e vedere. Da Alessandria salirono per val  di Bormida notizie di più lontano, dell'altra parte del regno verso la  Lombardia. Il Principe di Carignano scomparso da Torino era andato di là dai  campi dove stavano i reggimenti che s'erano dichiarati per la Costituzione, e  aveva riparato tra quelli che erano rimasti fedeli al Re assoluto in Novara,  sostenuti dagli austriaci corsi da Milano a dar addosso ai costituzionali. Si  parlava dei generali La Tour e Bubna confusamente, poi fu detto il nome del  fiume Agogna sulle cui rive era avvenuto un combattimento nel quale i  costituzionali avevano consumato le loro speranze. E per questo un grande  scoramento di tutti alle loro spalle, anche di quei soldati che, non essendo  giunti in tempo pel fatto d'armi, tornavano indietro pensando a mettersi in salvo  per non essere forse fucilati. 
  Se quei vecchi che narravano quelle cose ai ragazzi di dopo il quarantotto,  avessero pensato a scriverle mentre le avevano viste avvenire, leggeremmo  adesso delle pagine di cronaca rozze certo, ma preziosissime per i particolari  minuti, che ci darebbero il colore e lo spirito dei fatti meglio che non la  storia stessa. Leggeremmo che parecchio dopo l'infelice prova d'armi  sull'Agogna una notte passò per valle di Bormida, a Spigno, a Dego, una  carrozza che si fermò a Cairo, nella piccola piazza del paese deserta per l'ora  tarda. Là il cocchiere discese e andò a battere ad un uscio da dietro il quale  venivano tonfi sordi, certamente di pasta rimescolata da qualche fornaio.  L'uscio fu scostato un poco quasi timidamente, e tra l'uomo da dentro e il  cocchiere furono fatte poche parole. Là, disse il fornaio, mostrando la  casa di rimpetto, sta in quel palazzo là. Il cocchiere tornò alla  carrozza e parlò con chi vi stava dentro. Allora una testa si porse dal  finestrello e una voce chiamò alto: cavalier Stellani! Quasi subito si  illuminò la vetriata d'un balcone di quel palazzo, che poco appresso fu aperta. Chi chiama? chiese una voce. Io, Santorre, fu risposto. Oh tu?  smonta vieni su! - No, discendi un momento. - Aspetta. - E in  pochi istanti il cavaliere fu lì dal viaggiatore. Ciò che si dissero non fu  udito dal fornaio che pur era uscito a curiosare, e il colloquio fu corto.  Addio, addio, certo non ci vedremo più. Parole amare. Poi la carrozza partì, e  il cavaliere rimase a guardarla finché si perse il rumor delle ruote  sull'acciottolato. Allora se ne tornò in casa lento e crucciato. 
  Era quel cavaliere Stellani uno che aveva militato da ufficiale nella  Giovane Guardia di Napoleone, e nel ventuno apparteneva all'esercito del Re.  Aveva in una guancia una cicatrice. Questa per lui e per gli amici paesani  suoi, era di una sciabolata ricevuta in battaglia; per i nemici pur paesani,  segno rimasto d'un colpo dato su d'uno spigolo di pietra, per caduta da  cavallo, passando un ponte, dicevano fin di dove, di Trento. Così pure  malignavano sul suo colloquio di quella notte con Santorre Santarosa. Per quei  nemici era stato di raffacci a lui fatti perché non era corso a Torino e in  Alessandria a mettersi nella rivoluzione; ma per gli amici fu una calda  preghiera di Santorre, ond'egli si adoperasse per chi veniva dietro stentando,  e sarebbe passato nella valle e nel borgo.  | 
  | 
  
 |